Abbiamo avuto il piacere quest’anno di poter visitare la 53a Biennale d’Arte di Venezia durante la vernice, come già avevamo annunciato qualche settimana fa. Come si legge dal sito ufficiale la Mostra è partita alla grande: il primo giorno dell’apertura al pubblico sono stati staccati 4776 biglietti, mentre durante la vernice i giornalisti presenti sono stati 3774 di cui 1148 italiani e 2626 stranieri. Il nostro punto di vista è quello di due appassionati d’arte che lavorano in una scuola d’arte, quindi di addetti ai lavori, ma non artisti né critici. Quello che abbiamo notato dopo la visita alla mostra allestita da Daniel Birnbaum all’Arsenale è che forse il tema dell’esposizione, Making Worlds, non è stato rispettato in pieno. Un tema così generale e aperto si presta a non essere rispettato e a lasciare una larga libertà di scelta al curatore, il che è un bene per lui, ma l’esposizione ne risente in spessore artistico. Se dietro una mostra d’arte c’è un’idea forte, questa renderà maggiormente intelligibili tutte le opere che ne fanno parte, specialmente nel caso in cui si trovino in una situazione così vasta e variegata come quella della Biennale. Anche le opere apparentemente “minori”, una volta contestualizzate e giustificata la loro presenza, acquisterebbero un senso più ampio e profondo. Nonostante questo alcuni artisti ci sono sembrati interessanti e degni di nota: li abbiamo perciò sinteticamente elencati qui sotto scusandoci con coloro che abbiamo tralasciato perché non ci sono piaciuti o non li abbiamo capiti o ci sono sfuggiti.
Anche le partecipazioni nazionali, ai Giardini e in giro per Venezia, sono di varia qualità: alcuni spazi secondo noi non sono stati sfruttati bene, altri invece sono stimolanti e lasciano spazio alle riflessioni. Sul Padiglione Italia, curato da Luca Beatrice e Beatrice Buscaroli, abbiamo fatto delle considerazioni a parte.
Le citazioni sono prese dal catalogo della Mostra.
Fare Mondi
– Amy Simon ha presentato un’interessante serie di foto (A different state of mind) scattate in un interno di un appartamento di Tel Aviv: dettagli di una maniglia e delle chiavi infilate nella toppa, scorci di stanze, muri ingialliti dall’umidità, qualcuno che salta in fondo al corridoio. Si ha l’idea che quella casa contenga un mondo.
– Pavel Pepperstein presenta a nostro parere uno dei lavori più ironici e divertenti. I suoi lavori sono vicini al fumetto: le sue tavole, inchiostro e acquerello, sono ricche di testo e questi testi uniti al disegno creano una vera e propria storia, la “supersaga“, ovvero un mondo surreale ambientato nel futuro dove delle teste parlanti vivono in cima ai grattacieli o delle nuvole parlano tra loro dei cambiamenti climatici.
– Ceal Floyer con la sua installazione altera la percezione visiva dello spettatore proiettando una grande diapositiva che sembra di un albero normale, ma che in realtà è di un bonsai, restituendogli così lo status originario che gli spetterebbe: “Il titolo dell’opera Overgrowth (Crescita eccessiva) aggiunge una sfumatura di ironia, infatti sembra porre l’interrogativo su chi stia esagerando in questo senso”.
– Chu Yun ricrea una stanza buia punteggiata dai led degli elettrodomestici quasi che questi vivano di vita propria e che rappresentino per chi vi abita dei punti di riferimento. L’installazione in progress dell’artista cinese si chiama Constellation, “un piccolo universo configurato dal consumo giornaliero, che pur essendo caotico genera le proprie regole”.
– Nathalie Djurberg che ha veramente creato un mondo, o meglio una foresta di piante mostruose, nella stanza bassa dell’ex padiglione Italia dei Giardini: in mezzo alle orribili e inquietanti piante si possono guardare tre video in formato Claymation in cui personaggi di plastilina si muovono in scenari simili a quelli in cui si trova lo spettatore e che vivono esperienze estreme, al confine tra erotismo e violenza. L’unica artista inoltre che ci pare abbia in qualche modo affrontato in questa mostra il tema del sesso. Nathalie ha anche conquistato il Leone d’Argento come più promettente giovane artista della Mostra.
– Grazia Toderi con il suo doppio video Orbite rosse ci mostra una città notturna attraversata da piccoli globi luminosi. Abbastanza inquietante. Sembra una città bombardata. Anche il rombo di sottofondo, che sembra il respiro della città, crea nello spettatore uno stato di ansia e di aspettativa sospesa.
– Alexandra Mir, che abbiamo potuto intervistare proprio su queste pagine, ha presentato il lavoro Venezia (all places contain all others). Scatoloni di cartoline presi d’assalto dai visitatori che se ne allontanavano a mani piene. Una delle opere più in tema con la mostra: l’acqua che unisce tutti i posti e tutti i posti che sono uniti dall’acqua. Una visione globale del mondo che richiede anche l’intervento dello spettatore che porterà al di fuori dei confini della mostra l’opera stessa amplificandone (in)volontariamente l’estensione.
Partecipazioni nazionali
Spagna. La pittura migliore si è vista al padiglione spagnolo, quella di Miquel Barceló che vi espone 18 grandi dipinti. La serie più bella è quella dei mari, quattro grandi tele astratte che rappresentano la schiuma delle onde: una pittura materica, piena, emotivamente coinvolgente. Anche le altre opere sono molto interessanti, soprattutto quelle del gorilla chiamato Copito de Nieve, una celebrità dello zoo di Barcellona, che viene ritratto in vari momenti della sua vita creando così un parlallelo tra il gorilla imprigionato e l’artista: “questi dipinti sono un po’ autoritratti, riflettono la solitudine dell’artista e in un certo modo presentano la figura del pittore, in un momento di evidente dominio dei nuovi mezzi tecnologici, come una specie a rischio di estinzione”.
Brasile. Le foto di Luiz Braga, che espone nel Padiglione brasiliano, presentano un Brasile notturno, poetico: gente che lavora, che si aggira per le strade o sul porto, qualcuno che riposa, una bambina in una posizione contorta che guarda in macchina. Tutto lontanto dagli stereotipi sul Paese.
Egitto. Il padiglione egiziano, che ospita le opere dell’artista Adel El Siwi, è molto suggestivo anche se, col senno di poi, forse un pochino banale. Si viene accolti da alcune sculture in ferro ricoperte da foglie di paglia intrecciate che ricordano delle grosse mummie messe a guardia del padiglione. All’interno altre sculture del genere che rappresentano scene di vita quotidiana (il garzone del fornaio in bicicletta che porta il vassoio con il pane sulla testa) e alle pareti grandi dipinti che, pur essendo oltre il limite del figurativo (se si eccettua Andy Warhol in Egypt), hanno qualcosa di troppo “classico”, di Leggermente monumentale, come dice il titolo stesso dell’allestimento.
Padiglione Italia
A prescindere dalle polemiche politiche iniziate ovviamente ancor pirma dell’inaugurazione, il nuovo padiglione ci è sembrato un po’ troppo carico di opere: manca effettivamente lo spazio per farle respirare. Un’impressione probabilmente voluta dai curatori, ma forse non troppo apprezzata dai visitatori che stronfiavano in giro per le sale. Inoltre se la mostra avrebbe dovuto essere un omaggio al futurismo (Collaudi, parola marinettiana), come per il Fare Mondi di Birnbaum, anche qui pare che il tema sia un po’ sfuggito dal controllo. La (video)installazione di Valerio Berruti, La figlia di Isacco è però piacevole, con i suoi oli e affreschi su carta da pacchi che ritraggono un bambina che non riesce a trovare una posizione sulla sedia. Suggestivi anche i lightboxes del fiorentino Giacomo Costa: Private Garden, fotografie manipolate digitalmente che forse sarebbero state meglio all’Arsenale che qui.
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