Tra la cerchia degli intellettuali è un fatto comunemente accettato che Pier Paolo Pasolini (1922 – 1975) venga considerato come uno dei più importanti scrittori italiani del XX secolo. È stato poeta, cineasta, romanziere e giornalista, spesso intrecciando le varie discipline tra loro, sempre sfruttandole per la sua ricerca di una verità scottante e di una bellezza nascosta della realtà.
La produzione artistica di Pasolini è incredibilmente estesa e eterogenea: per tutta la vita ha scritto raccolte di poesie (l’edizione inglese più esaustiva è forse quella di Norman MacAfee), ma anche romanzi, pièce teatrali, sceneggiature, traduzioni e saggi; ha diretto 23 film ed è stato per alcuni anni editorialista dell’allora eminente “Corriere della Sera”. Ma a 34 anni dalla sua morte gli italiani sembrano a malapena ricordarlo. Nessuno scrittore italiano contemporaneo pare in effetti aver seguito il suo cammino arduo (sarebbe stato possibile in fondo?). Le sue opere vengono raramente lette nei licei e i suoi film vengono solo occasionalmente trasmessi da qualche tv a pagamento nel bel mezzo della notte. Le nuove generazioni a stento sanno chi fosse Pier Paolo Pasolini. A dire il vero, tutto ciò non sorprende, poiché gli italiani non lo hanno mai amato, da una parte a causa della sua omosessualità e del suo ateismo dichiarati, dall’altra a causa della sua schiettezza, poiché, come il grillo di Pinocchio, Pasolini ha rappresentato la coscienza del suo paese: riusciva sempre a (pre)vedere una “scomoda verità” – mutuando le più recenti parole di Al Gore – laddove gli altri avrebbero voluto credere in più rassicuranti menzogne. E come il grillo di Pinocchio, anch’egli venne spietatamente schiacciato.
Tuttavia, nonostante il generale oblio, le parole di Pasolini riecheggiano vive e veritiere nell’attuale società italiana, come pure i suoi film, i cui dialoghi e immagini continuano a mirare, con una tenace leggerezza, al cuore della condizione umana. Purtroppo il più delle volte il cuore di questa condizione poteva generare tragedia, come in parecchie delle sue opere o nella visione che lo scrittore aveva del futuro del suo paese. Solo alcuni mesi prima del suo assassinio, nello spiegare gli effetti dell’industrializzazione sugli italiani, Pasolini scriveva:
Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a tale trauma storico. Essi sono divenuti in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta soltanto uscire per strada per capirlo. Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana, l’avevo amata (…). Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere. Ho visto dunque “coi miei sensi” il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione. Cosa che non era accaduta durante il fascismo fascista, periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza (…). I “modelli” fascisti non erano che maschere da mettere e levare.
Pasolini era convinto che il nuovo potere totalitario (quindi neofascista) del consumismo stesse permeando l’intero paese, sebbene in un modo più sottile e raffinato di quanto avesse tentato di fare Mussolini, attraverso una forte omologazione e deculturazione delle persone che distruggeva le loro identità, le loro idee eterodosse e in fin dei conti le loro peculiari differenze. Sembra persino scontato il raffronto tra la previsione di Pasolini con l’attuale situazione dell’Italia, la cui opinione è orami quasi interamente sotto il controllo dell’impero mediatico di Silvio Berlusconi. Di fronte a questa oscura premonizione, come Cassandra, Pasolini era consapevole di essere solo. Egli probabilmente si rendeva conto che non sarebbe stato ascoltato in un periodo in cui, per la prima volta in vita loro, gli italiani stavano approfittando dei vari agi e comodità portati dal progresso tecnologico e scientifico. Ma la sua solitudine si era andata radicando anche nel suo essere, come lui stesso scrive nella poesia “Le Belle Bandiere” nel 1964:
(…)E, intanto, sono solo.
Perduto nel passato.
(Perché l’uomo ha un periodo solo, nella sua vita).
Di colpo i miei amici poeti,
che condividono come me il brutto biancore
di questi Anni Sessanta,
uomini e donne, appena un po’ più anziani
o più giovani – sono là, nel sole
Non ho saputo avere la grazia
per tenermeli stretti – nell’ombra di una vita
che si svolge troppo attaccata
all’accidia radicale della mia anima (…)
Ciononostante, Pasolini non si rassegnò mai né al fatalismo né a una malinconica disperazione. Nella poesia “La realtà” (1964) fu chiarissimo su questo punto:
(…) ma l’amore vale tutto ciò che ho.
Sesso, morte, passione, politica,
sono i semplici oggetti di cui do
il mio cuore elegiaco…
tuttavia, già in una delle sue prime raccolte scriveva:
Solo l’amare, solo il conoscere
conta, non l’aver amato,
non l’aver conosciuto. Dà angoscia
il vivere di un consumato
amore. L’anima non cresce più.
Le ceneri di Pasolini sono oggi le sue parole piene di vita e vitalità, dalle quali – come spesso accade a ogni grande scrittore – la sua anima è rinata. Sta a noi prestare ascolto e fare tesoro delle sue numerose opere, ricordando le sua gentilezza nei gesti, la sua grazia severa, il suo conversare tranquillo, che possiamo ancora ammirare nelle rare interviste, ora in rete.
Nel rievocare la sua amicizia con Pasolini Adolfo Chiesa scrive:
Solo una volta vedo Pasolini ridere, o sorridere. Siamo seduti all’aperto da Rosati in piazza del Popolo con Moravia e Laura Betti. Moravia quel pomeriggio è allegro, loquace, scatenato come ogni tanto gli capita. Parlano di viaggi, andiamo in Africa, andiamo in Cina, mentre la Betti scherza, dice che lei da anni non si muove da via del Babuino 165. A un certo punto passa un ragazzo con i capelli lunghi, i jeans stretti, l’aria “di vita” dei personaggi che affascinano Pasolini. E lo scrittore si mette a fissarlo, si distrae senza seguire più il discorso al punto che Moravia e la Betti lo tirano per la manica, gli danno gomitate…
Finalmente Pasolini smette di osservare il ragazzo, torna con noi, ci guarda tutt’e tre e sorride, un sorriso caldo, difficile da dimenticare.
Pasolini diceva che la vita di un uomo può essere definitivamente raccontata solo dopo la sua morte. Nessuna vera biografia potrà mai essere naturalmente scritta prima del punto finale, il quale arrivò per lui la notte del 2 novembre 1975, su una spiaggia di Ostia, vicino a Roma (in un luogo che si sarebbe potuto ritrovare nei suoi romanzi), dove venne brutalmente assassinato. Il suo omicidio tuttora rimane un caso irrisolto, come diverse altre uccisioni di quegli anni dominati da ancora oscure connessioni tra servizi segreti italiani, fascisti di estrema destra e gruppi mafiosi. La chiave per risolvere questo giallo è molto probabile che sia già andata persa o distrutta, eppure lo stesso Pasolini sembra miracolosamente ritrovarla e così aprirci la via verso la comprensione della sua tragica fine, allorché nel 1974, sulle pagine del “Corriere della sera”, illustra in un articolo che cos’è il golpe in Italia:
Io so.
Io so I nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle strage di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. (…)
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.
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