Pubblichiamo con piacere un articolo redatto da Mayumi Kobayashi, una nostra studentessa che, durante un corso di composizione scritta di livello avanzato, si è impegnata con passione e dedizione in approfondite ricerche riguardanti questo singolare caso di truffa negli ambienti dell’arte giapponese. L’articolo è appunto il frutto delle sue ricerche basate su documenti in lingua giapponese, che Mayumi ha prima tradotto in italiano e poi utilizzato per il racconto delle vicende che state per leggere.
Nel 1943, durante la seconda guerra mondiale fu trovato un vaso intatto d’epoca Kamakura (1192-1333) nella città di Nagoya in Giappone. Sul vaso era stata incisa la data: anno due di Einin, corrispondente al 1294. Un noto ceramista, Tokuro Kato (1897-1985), aveva scoperto il vaso mentre faceva degli scavi archeologici nelle rovine degli antichi forni. L’indagine sull’autenticità fu ripresa dopo la guerra. Il sovrintendente Koyama riiniziò l’investigazione e nel 1948 propose di dichiarare il vaso un bene di grande importanza storica per il Giappone, ma i quattro membri del comitato riunitosi per l’occasione negarono il consenso. Inoltre, nel 1954, uscì una collana enciclopedica sulle ceramiche, supervisionata da Kato. Una pagina era stata per l’appunto dedicata al vaso di cui il noto ceramista spiegava il valore presentando l’opera come un’importante ceramica medievale e pubblicandone una fotografia a colori. Alla fine, nello stesso anno Koyama nuovamente rispolverò la sua proposta che questa volta fu approvata in un solo quarto d’ora dal comitato. Quei quattro che un tempo si erano opposti erano infatti già tutti morti.
Uno dei motivi che avvalorava l’ipotesi dell’autenticità del vaso era una scheggia d’una ceramica del Museo Nezu a Tokyo, la quale era considerata come una parte d’una ceramica d’epoca medievale, fatta nello stesso antico forno di Matsudome, e precedentemente trovata e portata dal ceramista Kato al museo. Confrontando queste due ceramiche gli esperti dichiararono che quel vaso era stato modellato nell’epoca Kamakura dallo stesso autore e venne considerato una ceramica importante con alto valore rappresentativo per le ceramiche di quell’epoca.
Nonostante ciò, tra gli esperti rimaneva sempre il dubbio. Infatti, nel febbraio del 1960 fu pubblicato un articolo sul quotidiano Yomiuri che avanzava seri dubbi sull’autenticità del vaso e si scoprì anche che quel famoso forno in cui erano state ritrovate le antiche ceramiche era un’invenzione di Kato. Non era mai esistito quindi tale forno nel medioevo. La discussione sull’autenticità diventò ancora più accesa. Intanto Kato, che era al centro delle polemiche, era fuggito in Francia. In agosto, però, il figlio maggiore dichiarò su un quotidiano rivale, il Mainichi che il vaso era una sua opera. Successivamente un mese dopo, in settembre, il padre affermò su un terzo quotidiano, l’Asashi, di aver costruito lui da solo quel vaso. Kato raccontava nell’articolo inoltre di averne creati due, poiché nel 1934 aveva ricevuto l’ordinazione da un suo mecenate che lo sosteneva economicamente da anni. Kato aveva messo sui vasi la vernice apposita per renderli più vecchi e li aveva seppelliti lasciandoli sotto terra per cinque anni. Infine li aveva dati a uno storico e su una rivista d’arte i due avevano dichiarato di averli ritrovati durante uno scavo. Poiché il mecenate di Kato si suicidò dopo la guerra, non c’era rimasto quasi nessuno all’epoca che conoscesse la storia dell’origine dei vasi.
Si pone allora una domanda semplice: prima di attestare l’autenticità di quel vaso perché non erano stati fatti gli esami scientifici ai raggi-X? È rimasto il resoconto della commissione del 24 febbraio del 1961, in cui fra i vari problemi riguardanti il ministero delle educazioni, ritroviamo una discussione in merito al vaso delle polemiche. In questo resoconto infatti un consigliere chiedeva se gli ufficiali dell’Agenzia dei Beni Culturali avessero fatto quegli esami. Il direttore generale gli diede una risposta lunga e tortuosa: “… per esempio, l’esame a raggi-X o a infrarossi, uno studio sulle superfici con un microscopio phase contrast oppure le analisi fluorometriche, questo genere di esami all’epoca non furono eseguiti. Per il prossimo bilancio preventivo, abbiamo deciso di acquistare una macchina per le analisi fluorometriche che rappresenterà una svolta per i nostri metri d’indagine, i quali sono sempre stati eseguiti all’insegna della massima attenzione e serietà.”
Il consigliere gli ribatté ancora: “questo significa che non avete fatto nessun esame scientifico prima dell’attestazione d’autenticità del 1954?”
La risposta fu ovvia: “no”.
Una sezione dell’Agenzia per gli affari culturali fu così costretta a fare una serie di test a raggi-x e scoprì che le percentuali dei componenti delle vernici non erano quelli delle ceramiche del medioevo, inoltre non trovò neanche una traccia di usura della superficie causata dal tempo.
Nel 1961 fu così annullata la certificazione dell’autenticità del vaso e subito dopo il sovrintendente Koyama si dimise. Dopo le sue dimissioni egli si rinchiuse nel silenzio. Invece il ceramista diventò ancora più popolare dopo questa vicenda, perché l’opinione pubblica nei suoi confronti si era dimostrata molto favorevole e gli faceva i complimenti per la sua bravura e per il fatto che era stato capace di copiare un’opera d’arte così bene.
Ma come è possibile che il sovrintendente fosse stato così convinto del suo giudizio facendo un errore di valutazione così grossolano? Era stato imbrogliato dal ceramista o ne era complice? Il motivo per cui il ceramista avesse agito in quel modo è rimasto un mistero.
Un fatto oggettivo è che entrambi erano membri della Japan Ceramic Society, che ancora oggi ha una certa influenza sul mondo della ceramica; se infatti un membro “suggerisce” il valore di una ceramica, il prezzo di questa aumenta subito tra i collezionisti. Infine uno dei quei vasi non è mai stato ritrovato e così ancora oggi sono molti i collezionisti che sognano di avere “il vero vaso falso”.
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