Una biennale in linea con le ultime edizioni: tra delusioni, déjà-vu e (poche) sorprese. I vincitori di quest’anno li avevamo, modestamente, individuati anche noi: Leone d’oro per la miglior partecipazione nazionale al padiglione della Germania (ribattezzato per l’occasione “Egomania”) e all’artista che ha curato l’allestimento, Christoph Schlingensief, che ha trasformato il padiglione in una chiesa (interessante il richiamo casuale al Padiglione Italia in cui è stata ricostruita una ben più modesta chiesa, dove è l’Italia ad essere crocifissa); Leone d’oro per il miglior artista di ILLUMInazioni a Christian Marclay per l’incredibile video della durata di 24h, The Clock (2010), un lavoro di montaggio certosino di spezzoni di film, in cui compaiono ore e orologi (e l’ora corrisponde al momento in cui lo stai guardando!).
La delusione, inaspettata, ci è stata procurata dall’allestimento di ILLUMInazioni negli spazi dell’Arsenale: tutto più o meno (ultra)visto ed esposto con poca convinzione. Il vago tema dell’illuminazione (l’illuminazione delle nazioni, le nazioni illuminate o che illuminano, le illuminazioni di Rimbaud, i lumi nazionali illuministi…) si perde e si disperde includendo il tutto e il niente. Risalta, forse per differenza, il lavorone in cera dello svizzero Urs Fischer, riproduzioni di statue classiche come il Ratto delle Sabine di Giambologna che si sciolgono come candele, ovvero l’opera d’arte che invece di affermarsi nei secoli imperitura, preferisce scomparire, bruciare nell’arco di una mostra e lasciare come traccia solo una massa informe di cera.
A parlare dell’allestimento del Padiglione Italia curato da Vittorio Sgarbi siamo coscienti che si rischia di cadere nel tranello della provocazione. Certo che se l’intento era di far assomigliare gli spazi della Biennale a uno studio televisivo di una televendita, oppure a quelli di una mostra di pittori di una località balneare, lo scopo è stato raggiunto: per cui anche belle cose (come ad esempio un’emozionante scultura di Giuseppe Bergomi) si perdono nel caos da negozio “in conto vendita”. E glissiamo anche sull’operazione “Museo della Mafia”: un museo all’interno di un’esposizione di arte contemporanea è un controsenso o una provocazione? Boh… Una volta fuori dall’Italia, non resta che un padiglione cinese pieno di nebbia da ghiaccio secco (ancora déjà-vu, ma con un ricco buffet) e una performance in giardino di post-figli-dei-fiori, fonditori di vetro, musicisti, bevitori e ballerini di lap-dance sopra una catasta di legna da ardere: già visto, ma per lo meno ha l’audacia della commistione dei generi e la freschezza della performance.
Per fortuna i Giardini sono più luminosi o illuminanti: l’allestimento di Bice Curiger continua nel Padiglione Centrale e offre finalmente qualcosa su cui riflettere: il lavoro del sudafricano David Goldblatt che affronta l’attualissimo tema sociale della paura attraverso fotografie di ex-delinquenti riportati sul luogo del delitto, ogni foto corredata da un testo esplicativo. Fa riflettere anche la scelta della curatrice di portare i tre Tintoretto nel Padiglione e farne il fulcro dell’allestimento: se è vero che l’artista è stato un pioniere dell’uso della luce, è anche vero che metterlo a confronto con artisti contemporanei sembra più un esercizio di educazione artistica che una chiave di lettura della mostra. L’allestimento di Cindy Sherman è utile per seguire l’evoluzione degli autoritratti concettuali della grande artista americana. Forse non altrettanto luminosi o illuminanti sono i Turisti di Maurizio Cattelan che però hanno il pregio di portare l’esterno all’interno: piccioni impagliati che sovrastano opere e spettatori, facendo loro stessi da spettatori e opere, inquietanti testimoni/testimonial delle città d’arte. Tra i padiglioni, oltre a quelli tautologici che ci sono tutti gli anni, vale la pena vedere quello spagnolo, politicamente e culturalmente impegnato, e quello coreano che ospita la videoperformance Angel Soldier e le due Pietà: Self-hatred e Self-death, serie scultorea che utilizza sia lo stampo che la figura in sé. Le code chilometriche davanti ad alcuni padiglioni, come quello inglese, americano e giapponese, non ci hanno permesso di visitarli.
Anche il catalogo della Biennale 54. non riesce a soddisfarci: si è fatto ancora più piccolo di dimensioni, in un solo volume ed è estremamente parco d’immagini; per non parlare del carattere tipografico del testo, da manuale scolastico.
Tra i padiglioni esterni e eventi collaterali è sicuramente da non perdere la mostra Personal Structures a Palazzo Bembo, curata da Karlyn De Jongh & Sarah Gold con l’aiuto dell’artista Rene Rietmeyer, una collettiva poliedrica nata da simposi con gli artisti iniziati nel 2005. L’altra mostra da non perdere è Future Pass che presenta oltre 100 tra artisti e gruppi artistici da tutto il mondo ispirati all’arte proveniente dall’Asia. La mostra è divisa in due spazi: l’abbazia di San Gregorio e Palazzo Magilli.
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