Confesso che non sono un artista. Neppure indulgo, quanto meno facilmente, davanti a quadri o installazioni, finanche sculture. Non ho mai studiato arte. Mai disegnato. Mai compreso le tecniche né le correnti. Quasi mai ho letto un manifesto. Pochi i musei, pochissime le mostre, se non per qualche vernissage dove sono andato a rifarmi gli occhi su artiste o curatrici del momento, salvo poi aver bisogno del collirio. Insomma io l’arte non la conosco, indi non la comprendo, vale a dire non la vedo.
Confesso che venerdì ho trasgredito alla mia solita “ignoravia” e ho visitato Arte Fiera, la mostra di arte-mercato che si tiene ogni anno a Bologna. Molti Fontana tagliati, qualche bruciatura e fessura di Burri, tanti De Chirico da pensare che la metafisica sia più che altro una questione di linotype, De Pisis, Rosai, Rotella, Paladino, Gnoli, Warhol, Christo, Richter e tanti altri di cui ho perso facilmente memoria. E allora, autocollocatomi davanti ad alcuni di quei dipinti, come un tonno preso ad un robusto amo ho pensato: cos’è davvero che sto guardando in questo momento? Domanda apparentemente banale ma sufficiente a gettarmi in uno sconforto che neppure uno stand ricolmo di Champagne ha potuto lenire. Che cosa avevo davanti agli occhi, appeso alle pareti di uno dei tanti stand oppure adagiato su uno scaffale o ancora su un piedistallo eretto per l’occasione? Avevo forse dell’arte? Era arte per esempio una tela monocromatica incisa da un taglio recante il titolo di “Concetto Spaziale”? Se a casa avessi preso una tela, di colore simile, l’avessi tagliata nel mezzo, incorniciata o chiusa in una teca e quindi appesa al muro, avrei avuto le stesse sensazioni? L’esito fantastico di questo esperimento mentale mi ha rivelato una verità sconcertante: le sensazioni provate sarebbero state profondamente diverse. Ma allora che cosa c’era di così misterioso dentro quel quadro? Forse il taglio, oppure il colore e la consistenza della tela o infine, la cornice. Possibile? Da buon meta-pragmatico ho insistito con l’esperimento, ottenendo la stessa risposta.
Già nel lontano 1936 non era stato proprio Benjamin ad affermare che, grazie allo sviluppo tecnologico, l’arte sarebbe stata privata definitivamente del suo carattere originale, cosa successivamente dimostrata, tra le altre, dalla pop art? Dunque, cosa c’era in quel taglio appeso al muro che io, a casa mia, non avrei potuto riprodurre? Forse ciò che c’era aveva a che fare in realtà con il contesto. Anche questa era un’idea affascinante che aveva portato perfino a curiose e goliardiche rivisitazioni degli escrementi umani. Tuttavia l’esperimento mentale, declinato questa volta dentro i locali del mio vetusto appartamento, ha fornito la medesima risposta. Il quadro che avevo osservato alla mostra, anche appeso dentro casa mia, avrebbe dato sensazioni differenti rispetto a un analogo lavoro riprodotto ad hoc. Poi, folgorato come Paolo sulla via di Damasco, ho riflettuto a fondo: in effetti quella cosa avrebbe potuto essere immateriale, sì insomma l’idea di quel quadro. Con questa sorprendente intuizione, peraltro vecchia di oltre duemila e trecento anni, ho effettuato nuovamente l’esperimento mentale, cercando di concettualizzare il dipinto su cui tanto mi ero interrogato. Tale operazione mi ha portato a descrivere quel lavoro con le seguenti proposizioni: “un piano idealmente infinito, delimitato da un bordo invisibile, squarciato lungo una parallela al proprio confine”. Oppure: “una tela viva ferita dal taglio dell’esistenza.” O ancora: “Sotto l’orizzonte” , “Cicatrice”. O infine, in accordo all’autore: “Concetto Spaziale”. Ebbene l’esperimento anche questa volta ha confermato quanto andavo supponendo: l’idea era perfettamente riproducibile, anche combinando tutte le possibili proposizioni che io riuscivo a collegare in modo fattivo con l’opera. Del resto l’arte performativa nelle sue estreme manifestazioni aveva già sconfessato che l’arte potesse cristallizzare un’idea in un qualcosa di fruibile oltre lo spazio definito di un evento. In tale accezione la diversità della tela esposta alla mostra, rispetto a una analoga attaccata sopra il mio divano, sarebbe stata riposta nella mostra stessa, ovvero ancora una volta, se pure diversamente, nel contesto. Cosa questa che l’esperimento mentale di nuovo ha negato. Vagare per una mostra è un’attività stancante, che satura ben presto le facoltà intellettive e costringe semplicemente a visionare senza mai riuscire a comprendere. Il cervello umano è limitato sia nella sua capacità di elaborare che in quella di memorizzare. Di conseguenza le sensazioni diverse del quadro osservato a Bologna avrebbero dovuto essere di gran lunga più forti e intense dentro casa mia, dove tranquillamente avrei potuto assaporare tutti i dettagli e riflettere in santa pace, magari con un bicchiere di rosso in mano e una sigaretta, in modo da far fluire le emozioni dal cogito all’es. Ma come detto, l’esperimento ha negato anche questa possibilità. E allora, per concludere, cosa stavo guardando davvero alla mostra? Ecco io credo, nella mia ignoranza, che intorno a questa domanda si dia tutto il fare di un settore culturale, o di un modo di fare, mostrare e vendere cultura, quantomeno oggi, che va sotto il nome di arte figurativa o meglio ancora, della pittura e scultura.
La tentazione di lasciare il pezzo aperto, oggi poi che sono così tornate di moda le “cose chiuse” (test, case, scuole, confini, dispositivi, etc. ..) era forte. Tuttavia l’amore per la complessità mi porta necessariamente a tentare una risposta. In breve potrei sostenere, senza troppa convinzione, che ciò che di artistico v’è oggi in un’opera d’arte, non è l’opera in sé, né l’idea di essa e neppure il contesto nel quale la si possa aver vista o acquistata. L’arte dell’arte potrebbe invece avere a che fare con il processo di incapsulamento che porta il lavoro di un essere umano a essere collegato con la rete sociale, culturale ed economica (SCE) che regola l’esistenza di ogni individuo su questo pianeta. Un’opera d’arte, in tale accezione, non sarebbe nient’altro che un nodo della rete SCE, tanto più importante quanto più collegato. In questo modo diventa banale spiegare perché lo stesso quadro riprodotto in modo perfetto (e oggi grazie alla tecnologia è davvero possibile farlo o quanto meno farlo ad un livello di astrazione sufficiente a ingannare l’occhio umano…) non fornisca le stesse sensazioni dell’originale, così come facile risulta comprenderne il valore economico, spesso esorbitante. Acquistando un taglio di Fontana, in realtà, sto acquistando un nodo della rete culturale in cui tale opera è stata collocata: acquisto perciò un insieme di relazioni inscritte in quel taglio, relazioni dell’autore con il suo curatore, con l’idea rappresentata, con il suo fotografo, con le persone che lo hanno visto o acquistato prima di me, relazioni che quell’opera ha avuto con i musei o le gallerie in cui è stata esposta, con i giornalisti che ne hanno parlato, con i mezzi di comunicazione di massa che se ne sono occupati, con i critici che l’hanno osannata o vituperata o per i più feticisti, relazioni che le mani dell’artista hanno avuto con il supporto, il colore etc.… In altre parole, l’acquisto o la visione del quadro rappresentano un tentativo di appropriazione rispettivamente definitivo o temporaneo di un determinato nodo. La maraviglia “artistica” che proverei deriverebbe perciò non tanto dalla bellezza estetica quanto piuttosto dalla consapevolezza che l’oggetto che ho davanti non è un oggetto qualsiasi – per esempio un taglio sopra un pezzo di un vecchio lenzuolo – bensì un oggetto specifico depositario di tutta una serie di tracce o relazioni consumate dal momento della sua produzione a quello attuale. La capacità di suscitare emozioni di un’opera d’arte insisterebbe non tanto nella sua mera contemplazione, cosa che abbiamo già visto con gli esperimenti mentali non funzionare o per dirla più semplicemente, cosa che ci dovrebbe far apprezzare una ristampa in 3D quanto se non di più dell’originale, ma piuttosto nella consapevolezza o conoscenza che quell’opera è davvero l’originale. Insomma ciò che ci fa apprezzare di più un “Taglio di Fontana” originale da uno semplicemente riprodotto da una stampante laser tridimensionale, sarebbe l’identità di quell’opera, il suo nome proprio, vale a dire che l’arte figurativa oggi sarebbe nient’altro che una forma di onomastica che ha dalla sua però anche l’enorme pregio di creare occupazione!
Francesco Martini è Postdoc Researcher in Filosofia della Scienza al Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Bologna. Si occupa prevalentemente di teoria della conoscenza con particolare riguardo al dispositivo epistemologico della testimonianza in ottica anti-riduzionista, e di storia e antropologia della scienza e delle tecniche nell’ambito dello studio delle tecnologie digitali.
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Ciao Francesco,
Mi è piacuto molto il tuo articolo. Un altro pensiero – un po’ semplicistico, mi dirai – che potrebbe spiegare la valore importante del originale ‘Concetto spaziale’: mi domando se il valore que noi attribuiamo a questa opera sia collegato al fatto che fosse proprio iconoclastica nel tempo della sua produzione. Forse, nel nostro post-modernismo in cui niente è illecito, niente è sacro (sembro una vecchia!), siamo nostalgici per un tempo in cui era ancora possibile fare qualcosa di scioccante, innovativo, veramente nuovo. In questo contesto, l’opera origicale trascende tanto il suo tessuto – ormai non è soltanto una tela tagliata – quanto il suo concetto originale poiché sviluppa una vita/storia a se stessa. Magari è un simbolo di un altro tempo. Magari anche non so quello di che sto parlando…
Gabrielle
P.S.: Scusa il mio Italiano così inadequato.
Cara Gabrielle,
grazie innanzi tutto per aver letto l’articolo e un complimento particolare per come hai scritto il commento. L’italiano è una lingua complessa, ricca di sfumature e foriera di ambuigità e vaghezza. Ma nel testo sei riuscita comunque a imprimere un “senso” non banale. Quindi non hai niente di cui scusarti. Lieto, poi, che l’articolo ti sia piaciuto.
Entrando nel merito di ciò che dici, sono assolutamente d’accordo quando sostieni che Concetto Spaziale “ormai non è soltanto una tela tagliata” e aggiungerei, forse non lo è mai stata! In tale accezione infatti l’avevo equiparata a un nodo della rete economica e socio-culturale di cui, mi pare, sia oggi “tessuta” l’arte. E sono anche perfettamente d’accordo che il “valore” di quell’opera sia da ricercare soprattutto nella collocazione temporale della sua capacità iconoclastica. Tuttavia non credo che “sapere” un “Taglio di Fontana” come il primo lavoro del genere possa suscitare emozioni, se non quelle di ammirazione per l’autore e desiderio di possesso per l’opera, entrambe assai lontane dal senso di “maraviglia artistica”. Per spiegare meglio quello a cui alludo ti porto un esempio tratto dalla scienza anche se immagino che tutti coloro che gravitano intorno al mondo dell’arte sobbalzeranno! Se consideriamo un’equazione famosa quale “E=mc^2” il “vederla” emoziona a prescindere dal fatto che Albert Einstein l’abbia scritta. Insomma l’emozione in questo caso nasce dalla consapevolezza della capacità di quell’equazione a catturare una porzione di “bellezza” del cosmo. Tutte le volte che leggiamo quell’equazione, in un libro, in un fumetto o su un graffito abbiamo l’opportunità di riassaporare quella bellezza, senza porci il problema della sua originalità. Stessa cosa per la letteratura. Ogni volta che qualcuno legge la Recherche di Proust riesce a emozionarsi, a viverla, indipendentemente dal fatto che abbia in mano il manoscritto originale! Tutto questo per dire che nel mio articolo non mi chiedevo tanto quale fosse il valore di quell’opera – o di un’opera qualsiasi – in relazione alla sua “valenza estetica o concettuale” quanto piuttosto in relazione a una sua perfetta riproduzione. Cosa sulla quale, a ben vedere, è invece basato tutto il mercato dell’arte che, in tale ottica, mi pare stia sempre più allontanandosi dalla sua ragione di esistere, cioè l’arte stessa. E in questo si cela, a mio modesto avviso, un paradosso di non facile soluzione: ovvero che il mercato dell’arte, pur costantemente rifuggendo quello che in realtà è nato per esaltare, è comunque e sempre ciò che primariamente contribuisce a crearlo e permette il suo esistere.
Ciao Francesco,
la tua risposta è stata consì profonda che ci ha voluto 5 mesi di riflessione perché ci risponda io… OK, scherzo a parte, la verità è che ho aperto la rivista ieri sul mio volo e che le opere di un certo Maurizio Cattelan (lo conosceresti?) mi sono state presentate. Quella in giù mi ha fatto 1) ripensare al tuo articolo 2) sorridere. Spero che ti faccia effetto similare.
http://www.perrotin.com/cn/Maurizio_Cattelan-works-oeuvres-1899-2.html
g
Cara Gabrielle,
“chi è senza peccato scagli la prima pietra.” Non ricordo ma qualcuno che ha avuto un certo successo lo deve aver detto… – detto e non scritto a dispetto di tutti coloro che citano le “scritture”… ma questa è un’altra storia. – Nel senso che anch’io per impegni ti invio in ritardo un riscontro a quanto mi hai solleticato con la tua ultima.
A essere sincero – e perché non esserlo, la verità è bella in fondo non credi? – ho sentito parlare di Cattelan la prima volta qualche anno fa dopo aver ascoltato una canzone dei Baustelle che – ma potrei sbagliare – si sono ispirati a una sua opera – Charlie don’t surf – per il titolo e il testo di uno dei loro hit più conosciuti: Charlie fa surf. Wikipedia poi sostiene che a sua volta Cattelan si fosse ispirato ad Apocalypse Now, il film di Coppola liberamente – molto liberamente – tratto da “Cuore di tenebra” di Conrad e che tale film abbia inspirato anche un analogo brano dei Clash con lo stesso titolo dell’opera di Cattelan.
Nella catena di rimandi veri o wikipediati male che dir si voglia confesso che ben presto tendo a perdermi e a ritornare al punto di partenza.
Riguardo alla “Z” di Cattelan che dire: da piccolo, a carnevale, mi sono vestito diverse volte da Zorro. Anche questo per Jung forse avrebbe un senso. Se lo ha per te non ho idea.
Un caro saluto e buone letture.
Caro Francesco,
Fa un certo tempo che provo a risponderti, ma, avendo cominciato un nuovo lavoro, il mio monologo interno – che stava per diventare quasi totalmente in Italiano in questo anno in cui ho passato tanto tempo in Italia – è stato sostituito da una furia di pensieri medici/sul mio lavoro che si sgomitano per un po’ di spazio nella mia povera mente attonita. Dunque temo di 1) non potere scrivere in Italiano più e 2) non ragionare affatto (scusami, l’ospedale sta per ammazzarmi). Comunque questa settimana sono stata in vancanza nel Ticino e questo fine settimana penso passarlo a Bologna oppure a Bergamo. Qualcosa mi dice que tu conosci Bologna piuttosto bene – quindi se hai qualche consigli, ti ascolto.
Per essere sincera (appunto, perché non esserlo? é facile essere sincero quando il soggetto della sua sincerità non è molto personale…), Heart of Darkness è uno dei romanzi che ha avuto il più grande effetto su di me quando ero ancora a scuola, ed ho trovato la sua traduzione per lo schermo molto interessante. Particolarmente, l’inizio di Apocalypse Now (che è in realtà una fine)con ‘This is the end’ dei Doors che si sostituisce al rumore delle esplosioni in dietro dei palmi mi è piacuto molto.
http://www.youtube.com/watch?v=1b26BD5KjH0
Non sono sicura che il fatto che tu ti sia vestito da Zorro da piccolo abbia un certo senso per me; posso soltanto dire che se tu non ti vesti da Zorro addesso (e tutti i giorni), è un vero pecato. Imaginati quanta gente potresti raleggrare, arrivando nel nobile Dipartamento di Filosofia del Università di Bologna vestito da Zorro. Ti sfido di farlo lunedì – penso che sia l’unico modo di cominciare la settimane correttamente.
Un caro saluto a te,
g