Anche quest’anno ci siamo presentati puntuali all’appuntamento con la Biennale d’Arte di Venezia numero 55, curata da Massimiliano Gioni, nei due giorni della vernice, il 30 e 31 maggio 2013. Grande affluenza di addetti ai lavori, sin dal primo giorno che abbiamo trascorso ai Giardini e visitando alcuni padiglioni sparsi per la città. Sotto una cappa bassa di nuvole, siamo approdati ai Giardini a bordo del vaporetto di linea, incrociando nel frattempo il padiglione galleggiante del Portogallo, anch’esso in rotta verso la banchina della Biennale. Sempre piacevole fotografare le installazioni estemporanee dei turisti in gondola, non solo giapponesi, ma anche tanti indiani, che ci fotografano a loro volta, un gioco di rimandi vecchio, ma sempre piacevole.
Decidiamo di giocarci subito il Padiglione Centrale, anche per tastare il polso alla mostra. Ci troviamo immediatamente davanti alle illustrazioni del Libro Rosso di Carl Gustav Jung, rimasto inedito fino al 2009 e considerato un esercizio di immaginazione attiva, pratica che Jung teorizzò come strumento di scoperta ed analisi dell’inconscio. Come auspicio a tutta la visita, la Maschera di André Breton di René Iché posta lì a simbolizzare il continuo travaso tra inconscio e arte e forse un po’ a tenere a bada l’eccessiva enciclopedizzazione artistica.
Nella sala centrale del padiglione ci fermiamo a guardare/ascoltare la performance di Tino Sehgal (il cui titolo, come riporta il catalogo, non è ancora stato indicato) che sarà il vincitore del Leone d’Oro: una giovane donna accovacciata in terra modula dei suoni, quasi un canto, mentre una donna più anziana, ad occhi chiusi, fa dei movimenti in accordo con i suoni. La performance è abbastanza ipnotica e molte persone si fermano ad ammirarla. Più tardi quando ripassiamo dalla stessa sala i performer sono cambiati, ma la performance continua con un’altra donna che vocalizza e un bambino che quasi in trance fa dei movimenti con le braccia e il corpo. Ci è venuto subito in mente l’ultimo film di Sorrentino, La grande bellezza, dove una bambina viene praticamente costretta dai genitori a creare dei quadri mentre gli spettatori la osservano: un’infanzia rovinata. Sinceramente il Leone d’oro ci sembra un po’ eccessivo per una performance non troppo originale e più vicina al teatro o alla danza che all’arte contemporanea.
Il tema della mostra di Gioni trova un suo piacevole modo di svilupparsi nel percorso non lineare del Padiglione Centrale.
Ci colpiscono i libri d’artista del giapponese Shinro Ohtake, una ricca e coloratissima collezione di collage rilegati in quaderni e quadernoni, purtroppo non sfogliabili. Sullo stesso tema le circa 250 sculture di argilla cruda di Peter Fischli e David Weiss che con ironia ripercorrono lo scibile umano e non (provate a scovare quella intitolata “Il Dottor Spock guarda al suo pianeta natio Vulcano ed è un po’ triste perché non può provare alcun sentimento”).
Sempre sul tema scultoreo incontriamo gli Animals Wild and Tame di Levi Fisher Ames e il certosino lavoro di Gianfranco Baruchello, La grande biblioteca, che è una biblioteca sì, ma in miniatura.
Lascia un po’ sconcertati l’opera concettuale di Roger Hiorns: base di altare in pietra di granito polverizzata, che si concretizza in un mucchio di polvere non calpestabile sparsa in una sala, (Hiorns nel 2008 aveva già polverizzato un motore di un aereo civile), ma che certo acquista senso se accostata alle altre opere che la circondano, i quadri esoterici di Hilma Klimt e quelli mistici di Augustin Lesage (le Compositions symboliques), mentre poco più oltre troviamo i lavori ispirati ai tarocchi di Aleister Crowley e Frieda Harris.
Sul genere elencazione maniacale ed enciclopedica (e ancora tanto lavoro certosino) colpiscono due installazioni: Le 387 case di Peter Fritz (1916 – 1992) assicuratore di Vienna di Oliver Croy e Oliver Elser, una distesa di modellini di casine sullo stile di quelle dei plastici dei trenini e Asylum, installazione con materiali vari di Eva Kotátková, ispirata alla tecnologia e alla scienza, e che conteneva anche l’artista: la sua testa spuntava fuori dal tavolo, circondata da grate e davanti al volto un muro dal quale, attraverso due fori, poteva essere guardata negli occhi. Da brivido (l’opera che ti osserva è sempre un rovesciamento piacevole, anche se un po’ horror).
Non manca la “bella” pittura figurativa a olio: le affascinanti e inquietanti visioni del mare del Nord di Thierry De Cordier, gli iperrealistici dettagli umani di Ellen Altfest, e i potenti ritratti di Lynette Yiadom-Boakye.
Poca fotografia, ma di qualità: ricordiamo Relationship del russo Nikolay Bakharev e la serie senza titolo di Kohei Yoshiyuki da accostare sicuramente alla filosofia fotografica di Araki, fotografare tutto e di tutto: la qualità viene dalla quantità. In tema anche le foto di fine anni ’70 di J.D.’Okhai Ojeikere, una serie di fantasiose acconciature africane. Video quasi assenti.
Sempre all’interno del Padiglione Centrale si possono vedere le opere di Maria Lassnig e Marisa Merz, Leoni d’oro alla carriera.
I padiglioni esterni riservano in generale meno sorprese, se si eccettua forse quello olandese che ospita Room with Broken Sentence, una personale di Mark Manders (1968) che espone una serie di sculture di diverse dimensioni, teste schiacciate o sezionate da assi di legno che le deformano, e che riescono a suscitare una forte impressione nello spettatore, sia per la tecnica di realizzazione che per l’impatto visivo che si crea tra le sculture e l’ambiente stesso del padiglione.
Sebbene abbia qualcosa del déja-vu, il Padiglione del Giappone, paese noto per l’estreni individualismo dei suoi abitanti, presenta un lavoro collettivo di Koki Tanaka che a due anni dal terremoto e tsunami affronta il tema attraverso degli “atti collettivi”: vediamo ad esempio un video in cui nove parrucchieri tagliano contemporaneamente i capelli allo stesso cliente oppure un gruppo di ceramisti che crea un solo vaso o ancora un altro gruppo che dorme nella stessa stanza in modo da poter creare al risveglio una storia collettiva.
Il Padiglione spagnolo è rappresentato da Lara Almarcegui, artista che analizza i processi urbanistici e la trasformazione delle aree abbandonate nelle periferie delle città. In questa mostra Almarcegui si è concentrata sull’area abbandonata di Sacca Mattia, zona in cui venivano gettati i rifiuti e gli scarichi delle vetrerie dell’isola di Murano. Così il padiglione ospita enormi cumuli di materiali di scarto, calcinacci, terra, vetro, ecc. che creano un effetto straniante nel visitatore.
Merita un passaggio il padiglione Russia con un allestimento dedicato al mito di Danae (e al denaro). Molti invece i padiglioni sui quali si può sorvolare: tra questi ci teniamo a citare quello austriaco che presenta un cartone animato in pieno stile Walt Disney anni ’50: perché?. Altri (Danimarca e Germania), date le lunghissime code all’ingresso, abbiamo dovuto saltarli.
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