Sotto un plumbeo cielo veneziano (ma Venezia è bella con qualsiasi tempo), dopo la visita del giorno precedente ai Giardini, ci addentriamo nel ventre dell’Arsenale che ospita l’altra metà del Palazzo Enciclopedico, che è poi il titolo dato dal curatore Massimiliano Gioni alla 55a Esposizione Internazionale d’Arte. Le pareti rustiche dell’Arsenale sono state ricoperte da pannelli bianchi: si perde un po’ la magia degli spazi, ma si acquista in visibilità e si apprezzano di più i lavori.
Il visitatore è accolto dal modellino del Palazzo Enciclopedico, il museo immaginario che avrebbe dovuto ospitare tutto il sapere dell’umanità, ideato nel 1955 dall’artista autodidatta italo-americano Marino Auriti: un palazzo enorme di 136 piani per oltre 700 metri di altezza, che avrebbe dovuto occupare 16 isolati della città di Washington. La mostra è quindi organizzata come una raccolta di scoperte e meraviglie: forme naturali e artificiali si alternano come in un museo della scienza o come in una wunderkammer.
L’opera Belinda di Roberto Cuoghi sembra una forma di vita microscopica ingrandita fino ad occupare lo spazio come se fosse una creatura mostrosa, quasi fantascientifica; le sculture umanoidi di Paweł Althamer (Venetians, ottanta sculture realizzate con calchi in gesso, fusi in plastica e ricongiunti a corpi filiformi) come un’invasione aliena si dislocano in un’intera stanza e non si sa più se siamo noi ad aggirarci tra loro o loro tra noi.
Passando da uno spazio a un altro ci troviamo davanti il sorridente pupazzone di Paul McCarthy dal cui ventre escono altri pupazzi; accanto un nudo iperrealista a dimensione naturale (olio su bronzo fuso) di John DeAndrea e poco più in là una giantesca signora in tailleur blu di Charles Ray ci fa sentire piccoli piccoli mentre le passiamo accanto.
Tra raccolte di dagherrotipi (Linda Fregni Nagler), studi di antichi alberi (Patrick Van Caeckenbergh), raccolte fotografiche e video di colline naturali o artificiali (Kan Xuan) e di pseudo studi anatomici (Yuksel Arslan) ci aggiriamo nei meandri della mostra, sorprendendo e facendoci sorprendere. Così una stanza è dedicata a Eugene Von Bruenchenhein (1910 – 1983), artista americano outsider che conta tra i suoi lavori oltre un migliaio di paesaggi apocalittici e coloratissimi, centinaia di sculture fatte con ossa di pollo, ceramiche, gessi e innumerevoli foto della moglie Marie in versione pin-up.
Un’altra sala ospita le stampe a gelatina d’argento di Herbert List, non le classiche di moda o di nudi maschili, bensì una serie di foto scattate nel 1944 al Prater di Vienna che all’epoca ospitava l’ormai chiuso Panoptikum, una vera e propria camera degli orrori che conteneva riproduzioni in cera di personaggi, diorami di crimini, rappresentazioni anatomiche e bizzarrie mediche. Negli stessi spazi si possono vedere i morbosi e geometrici fotomontaggi feticisti di Pierre Molinier (amico di Breton, che però lo rimproverava per le sue immagini troppo scandalose) e i disegni surrelisti-erotici di Hans Bellmer, noto tra l’altro, oltre che per la fotografia, anche per le sue bambole a grandezza naturale, raffiguranti femmine adolescenti, prodotte attorno agli anni trenta.
Non manca la tecnologia con video e installazioni che sono ben inserite all’interno del percorso: maniacale e autoreferenziale l’installazione di Dieter Roth, Solo Szenen, dove decine di piccoli monitor rimandano registrazioni della vita quotidiana dell’artista tra il 1997 eil 1998.
La mostra all’Arsenale prosegue con alcuni padiglioni nazionali, tra i quali citiamo quello della Santa Sede che per la prima volta viene ospitato dalla Biennale: e poiché era la prima volta, i curatori hanno deciso di iniziare dal primo libro della Bibbia: la Genesi. Una piacevole sorpresa è il padiglione delle Bahamas, isole tropicali che hanno deciso di rivoltare lo stereotipo ed hanno presentato il progetto Polar Eclipse dell’artista Tavares Strachan, il quale si è cimentato in una serie di lavori (foto, video, installazione) sul tema del Polo Nord.
Da non perdere il Padiglione della Repubblica Popolare Cinese che presenta una serie di interessanti video ipertecnologici e soprattutto una serie di quattro fotografie (3 metri per 1,30) di Wang Qingsong: delle vere proprie messe in scena, popolate da un’infinità di comparse.
Infine il Padiglione Italia, che due anni fa era stato caoticamente non-allestito da Vittorio Sgarbi e quest’anno ospita la mostra vice versa (al contrario… sarà un caso?), curata da Bartolomeo Pietromarchi, e che è forse la parte più rilassante di tutta la mostra. In particolare ospita una bella collezione di fotografie degli anni ’70 disposte tematicamente.
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Accademia del Giglio, lingua italiana, arte e cultura a Firenze: adg.assistance@gmail.com.
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