Il testo che state per leggere è stato pensato per studenti di livello C1/C2 o anche B2 se seguiti dall’insegnante. Vi darà un’idea abbastanza fedele su ciò che succedeva all’interno del famoso Colosseo di Roma. Leggete attentamente il brano e cercate sul dizionario le parole italiane che non conoscete; poi fate la comprensione che trovate alla fine del testo.
Il senso della morte nell’Anfiteatro Flavio
Il Colosseo, noto in antichità come Anfiteatro Flavio, è considerato ancor oggi una delle opere più significative dell’edilizia classica. In grado di ospitare circa 68.000 spettatori seduti e altri 5000 in piedi, deve il suo nome ad una statua gigantesca che rappresentava Nerone – Helios (Nerone – Sole) e che troneggiava all’interno della domus aurea del primo Imperatore condannato alla damnatio memoriae (cancellazione della memoria): la statua, andata irrimediabilmente perduta, ci è testimoniata dalla storiografia romana senza che, per altro, si sia giunti ad una opinione condivisa sulle sue dimensioni e sul suo destino. Il dato certo è la sua prossimità con l’Anfiteatro Flavio.
Costruito in 8 anni, fu inaugurato sotto l’Imperatore Tito nell’80 d.C e arricchito di archi, ciascuno dei quali adornato da statue e semicolonne in stile ionico, dorico e corinzio; l’abilità dei costruttori, le raffinate tecniche ingegneristiche e la volontà di farne un simbolo dell’Impero sono testimoniate anche da raffinati accorgimenti quali la copertura mobile (velarium) che proteggeva gli spettatori dal sole e dalla canicola durante la stagione estiva. Raggiungeva infatti un’altezza di 52 metri con 527 metri di perimetro; per edificarlo ci vollero 100.000 metri cubi di travertino proveniente dalle cave di Tivoli, dove qualche decennio più tardi l’Imperatore Publio Elio Adriano costruirà uno dei complessi urbanistici più imponenti e significativi di tutta l’antichità.
Al suo interno, le volte delle scalinate erano dipinte in oro e porpora, gli anditi lastricati in marmo e impreziositi di mosaici realizzati dai maggiori artisti dell’epoca. La cavea era divisa in quattro ordini di gradinate, a cui si accedeva per censo: alle donne era concessa la parte più alta del Colosseo, sia per evitare contatti promiscui che per ribadire la scarsissima considerazione di cui godeva il genere femminile all’interno del tessuto sociale romano anche in età imperiale.
A livello del terreno un’arena amplissima ospitava i combattimenti gladiatori, le naumachie (battaglie navali) e le damnatio ad belvas, cioè le condanne a morte inflitte tramite l’assalto di belve feroci appositamente catturate nelle zone africane dell’Impero e condotte a Roma all’uopo; gli animali (tigri, leoni, elefanti, struzzi, pantere), così come i gladiatori, spuntavano dal pavimento dell’arena in virtù di una meccanica raffinatissima di cui si vedono ancora le tracce nei sotterranei della stessa. Inoltre delle cancellate proteggevano gli spettatori delle prime file da eventuali incidenti, così come si erano provviste molteplici uscite (vomitoria) proprio per far defluire velocemente gli spettatori in caso di zuffe o incidenti (famosa del resto la lite avvenuta a Pompei che indusse l’Imperatore Nerone a vietare per 10 anni gli spettacoli nella città campana).
Il Colosseo era dunque sì un luogo di mirabilia (cose mirabili, meravigliose), ma soprattutto era un luogo di morte (le condanne di cristiani testimoniate da libri – film quali Quo Vadis furono generalmente tardive e avvennero con modalità diverse rispetto alla tradizione prodotta dal cristianesimo su questo aspetto). Va sottolineato del resto come la morte, nell’anfiteatro Flavio, non assumesse i contorni propri delle rappresentazioni giunte fino a noi grazie ad una tradizione poco attenta alla realtà storica (famoso l’equivoco del “pollice verso”, che nasce da un dipinto ottocentesco) né veniva annunciata dalle frasi celeberrime quali «Ave Caesar. Morituri te salutant» (nei fatti, pronunciata forse una sola volta davanti all’imperatore Claudio e fuori Roma): la morte era in realtà strettamente connessa alla cultura romana, che vedeva nel momento cruciale della vita una prova di coraggio e un modo per dimostrare il proprio valore. Non solo, la rinuncia alla vita e l’impassibilità dimostrata nel momento supremo (quello che Leopardi chiamerà Il supremo scolorir del sembiante) era per i Romani, soprattutto per la cultura stoica che ebbe grande impatto durante l’età imperiale, indice di sicura dignitas e virtus (dignità e coraggio), in grado di riscattare un’intera esistenza e di ricadere come bona fama (buona fama) sui figli e sui nipoti: sulla stirpe, insomma. Si pensi ad alcune figure sempre tratte dalla storiografia romana, da Attilio Regolo, a Marco Curzio fino a Trasea Peto.
Nell’Anfiteatro Flavio sta dunque non solo la realizzazione della capacità tecnica dei Romani, ma soprattutto il senso del loro agonismo, della feroce lotta per la vita trasposta in duello, della forza o della debolezza di vincitori e vinti, sia fisica che morale. Lo spectaculum era dunque quello di un famoso proverbio tratto dalla ricchezza paremiografica (la paremiografia è il complesso di testi attinenti ai proverbi) latina «Mors Tua Vita Mea» (la tua morte è la mia vita), il cui assunto, così dicotomico, rappresentava uno dei sensi più profondi di una civiltà che lottò per tutta la sua storia per ampliare i propri territori e le proprie ricchezze e che sentiva come proprio il compito di dominare il mondo allora conosciuto. In questo senso, una rilettura della funzione dell’Anfiteatro Flavio non può certo essere esclusivamente riassunta nel panem et circenses di giovenaliana memoria, ma va analizzata in relazione alla più ampia weltanshauung propria della cultura latina. Sembra pertanto di sentire echeggiare fra quelle pareti oramai disadorne di marmi, chiodi, statue (utili nei secoli ad altri usi, non sempre migliori), gli esametri di Virgilio posti quasi a conclusione dell’Eneide «Usque adeone mori miserum est?» («A tal punto dispiace morire?», En., XII, 646). Per il popolo che dominò il Mediterraneo, la morte era un momento da osservare con partecipazione o distacco ma con il quale familiarizzarsi, a cui non dare l’importanza attribuita successivamente e in particolar modo in età moderna. Questa “sensibilità”, tanto distante dalla nostra, è ancora lì a testimoniarci delle vittime e delle atrocità che anche altre epoche hanno commesso, compresa la nostra, la quale però non offre certo quella dimensione brutalmente cruenta fra le urla delle gradinate. Nelle nostre strade urbane, la morte è di frequente accompagnata dagli scatti dei telefoni cellulari e postata, in fretta e con un “mi piace” al seguito, in rete o sui social network.
Eleonora Pinzuti
Rispondete Vero o Falso alle seguenti affermazioni:
1. L’Anfiteatro deve il suo nome (Colosseo) ad una statua di Nerone, conservata nei musei vaticani
2. All’epoca della sua inaugurazione era fornito di una copertura fissa che proteggeva gli spettatori durante tutto l’anno
3. L’interno era sfarzoso, a testimonianza della ricchezza di Roma e dell’Impero
4. Le donne assistevano agli spettacoli con gli uomini, a seconda del proprio censo
5. Le belve apparivano d’improvviso sulla scena dai sotterranei, portate sull’arena con sofisticati meccanismi
6. Non vi era nessuna norma di sicurezza a protezione degli spettatori
7. Il “pollice verso” era un modo di indicare una condanna a morte suffragato dagli studi attuali
8. La cultura stoica era molto diffusa durante l’età imperiale
9. Dal modo di affrontare la morte i Romani deducevano il coraggio e il valore morale di un individuo.
10. I Romani avevano paura della morte
11. Oggi non esiste più “lo spettacolo della morte”, come invece avveniva nell’età romana
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