C’è ancora chi va alla Biennale di Venezia e ci rimane male perché c’è poca pittura, anzi Pittura con la P maiuscola: ma dico io, non potete andare a vedervi i tanti Tintoretto e Canaletto che ci sono in città? C’è chi si lamenta che l’arte contemporanea non si capisce ed è costretto a leggere la nota introduttiva del curatore: bene, allora spiegatemi il significato della Venere di Botticelli, quella tizia bionda seminuda che fa surf su una conchiglia mentre due guardie del corpo le soffiano alle spalle e un’altra tizia vestita come un prato l’aspetta per coprirla… Siete rimasti indietro, l’arte come la pensate è finita almeno cento anni fa. Adesso fate un piccolo sforzo oppure restatevene a casa o al limite andate agli Uffizi.
Tolto questo sassolino dalla scarpa passiamo a raccontare ciò che ci è piaciuto sempre tenendo presente ciò che abbiamo detto riguardo alla curatela di questa Biennale.
Padiglioni nazionali in città
1. Purtroppo ne abbiamo potuta visitare solo una minima parte data la mancanza di tempo e la stanchezza da passo veneziano. Il numero uno, imperdibile, è il padiglione dello Zimbabwe che presenta Pixels of Ubuntu/Unhu. Già nella scorsa edizione lo avevamo segnalato: quest’anno presenta tre artisti, uno migliore degli altri. Il tema su cui si cimentano è l’impossibilità di vivere isolati dagli altri: Unhu/Ubuntu sono dei valori tradizionali che si riferiscono alla percezione ontologica del sé, della famiglia e delle sue relazioni tra l’io e gli altri, “I am because we are” (sono perché siamo) e ancora più precisamente “if you don’t exist or I don’t acknowledge you, then I cease to exist” (se non esisti o non ti riconosco allora smetto di esistere). Tre artisti lavorano su questo tema: Chikonzero Chazunguza che presenta dei bellissimi lavori tra disegno, pittura e stampa; Masimba Hwati con una serie di opere di tradizione pop sperimenta sul simbolismo degli oggetti e su come vengono percepiti; Gareth Nyandoro, interessato ai mercati e luoghi pubblici, presenta grandi opere in cui unisce con grande effetto le tecniche del collage e del décollage unite dall’uso dell’inchiostro.
2. Il padiglione dell’Ecuador, presso l’Istituto S.Maria della Pietà affida le sue quattro sale alla poliedrica artista Maria Veronica Leon Veintemilla: installazioni audio-video, disegni, foto e oggetti si fondono in un “tecno-teatro” dove l’elemento acqua fa da collante. Particolarmente suggestive le foto della serie Gold Water: Apocalyptic Black Mirrors ispirate alle due principali fonti naturali della ricchezza ecuadoriana, l’acqua e l’oro.
3. La grande collettiva Personal Structures a Palazzo Bembo non ce la perdiamo mai. Quest’anno ci è sembrata un pochino meno coinvolgente, ma forse solo perché quando l’abbiamo visitata era ancora in fase di allestimento e tecnici e artisti stavano ancora alacremente lavorando. Di grande effetto ottico l’installazione di Katrin Fridriks Gene&Ethics – Master Prism con la grande lente d’ingrandimento che acuisce e distorce la visione; suggestive ed estranianti le sculture en abyme di Guillaume Lachapelle; la foto di Vitaliy & Elena Vasilieva con il grande ammasso di corpi fangosi che sembra una battaglia scolpita a bassorilievo su un frontone di un tempio; divertenti e inquietanti le teste di maiale dell’artista olandese Arnix Wilnoudt che abbiamo avuto il piacere di conoscere. Un sacco di cose da vedere e su cui riflettere, un’oretta da spendere volentieri.
4. A palazzo delle Prigioni Wu Tien-chang presenta per il padiglione di Taiwan Never Say Goodbye, due grandi installazioni light-box e una complicata video-installazione che ricrea una sorta di scena teatrale tipicamente orientale in cui viene proiettato un video ipertecnologico. I suoi personaggi indossano delle sottili maschere fatte con una membrana di pelle artificiale e raccontano delle storie interpretando delle canzoni (tradizionali?). Non imperdibile, ma se si ha un po’ di tempo val la pena fermarsi.
5. Ancora un evento collaterale: Scotland + Venice a Palazzo Fontana in zona Cannaregio dove l’artista Graham Fagen esibisce un nuovo corpus di lavori che include sculture, disegni e un’installazione audiovisiva. Abbiamo avuto la fortuna di capitarci proprio mentre l’artista spiegava il proprio lavoro: Rope tree, una scultura monumentale in bronzo che accoglie i visitatori nella prima sala rappresenta il radicamento del suo lavoro al terreno mentre le corde rappresentano il lavoro stesso. Nella seconda sala si trova una divertente serie di disegni a inchiostro indiano tracciati intuitivamente mentre l’artista con la lingua sente la parte interna ed esterna dei propri denti. L’installazione nell’ultima sala è ipnotica: Fagen ha messo insieme una compositrice, Sally Beamish, i musicisti dello Scottish Ensamble e il cantante reggae Ghetto Priest e attraverso cinque canali audio e quattro video reinterpreta The slave’s lament, una poesia di Robert Burns. La musica è un perfetto mix di canzoni folkloristiche scozzesi, musica classica e reggae: come diceva Faghen durante la presentazione “cosa sono le radici? dentro di me c’è più la musica reggae che quella classica o folk della mia cultura di origine.”
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