Riprendiamo il nostro excursus sulla 56a Biennale d’Arte di Venezia iniziato con questa riflessione, continuato con la descrizione dei padiglioni internazionali in città e che si conclude qui con le nostre opinioni su alcuni artisti e opere presenti all’Arsenale e ai Giardini.
Arsenale
1. Bruce Nauman, l’artista delle luci al neon. Un’installazione lungo le pareti di una delle prime sale, cose già viste, ma il lavoro sulle parole è sempre affascinante: una su tutte Eat Death del 1972.
2. Abu Bakarr Mansaray viene dalla Sierra Leone. Arriva in Europa nel 1998 come rifugiato di guerra. Porta con sé The Massaka (una distorsione della parola “massacro”), una serie di disegni realizzati nel 1997 che documentano la guerra civile avvenuta nel suo paese e che espone oggi alle Corderie dell’Arsenale: sembrano quasi disegni di un bambino o di un adolescente che inventa macchine fantastiche: peccato che le macchine in questione siano armi, carri armati zoomorfici e scene di massacri, il tutto descritto ingegneristicamente.
3. Katharina Grosse presenta un’installazione site specific che rappresenta un disastro, forse una zona bombardata, per cui si vedono detriti e blocchi di cemento, il tutto però dipinto a colori accesi, brillanti con un compressore e pistola spray.
4. Se siete fortunati vedrete al lavoro Ernesto Ballesteros, artista argentino: in uno spazio delle Corderie ha ricostruito una specie di laboratorio dove costruisce aeroplanini leggerissimi che lancia nella stanza. Il suo è un lavoro sul peso e sulla densità della materia, ma anche sulla linea, la traiettoria. Non si capisce bene cosa c’entri con il resto, ma è un piacevole incontro.
5. Il gruppo vietnamita The Propeller Group presenta A universe of collisions. Se non ve lo spiegano non lo capite, ma il concetto è molto interessante: quante volte nella storia delle guerre si sono scontrati due proiettili tra loro? Molto poche, ma qui è possibile vedere alcuni di questi oggetti, proiettili destinati ad uccidere il nemico che si sono fusi insieme, uniti in aria quasi miracolosamente.
6. Kay Hassan è un artista sudafricano che lavora con materiali di recupero e scarti urbani. Qui vedrete dei bellissimi ritratti realizzati con la tecnica del collage: manifesti pubblicitari strappati vengono assemblati e il risultato è Everyday people, grandi pannelli quasi tridimensionali, senza cornice con bordi grezzi e irregolari che ti scrutano dalle pareti. Belli, bravo.
7. Non potrete fare a meno di imbattervi e di ammirare gli otto autoritratti capovolti di Georg Baselitz, grandi tele di cinque metri ciascuna. Qui chi cerca la pittura avrà il suo momento di felicità.
8. Rimarrete anche impressionati dall’opera di Kutluğ Ataman, artista e filmaker di origine turca, The portrait of Sakip Sabanci è un omaggio a questo magnate e filantropo morto nel 2004 e molto noto in Turchia. L’installazione è composta da diecimila pannelli LCD che contengono l’immagine in formato fototessera di una persona che ha conosciuto Sabanci o che si è vista cambiare la vita da lui. L’opera è sospesa al soffitto e sembra quasi un’onda o un grande foglio o un lenzuolo che sembra muoversi sopra lo spettatore.
9. Il Padiglione Italia. Abbiamo sentito fare molte critiche alla mostra curata da Vincenzo Trione, addirittura qualcuno dice che era meglio quella di Sgarbi del 2011. Secondo noi più che all’allestimento e alle opere e agli artisti presentati bisogna fare una critica proprio al titolo della mostra, il roboante Codice Italia, che ci fa venire in mente un po’ un codice giuridico e un po’ un codice a barre (giustizia e economia) e che vorrebbe dimostrare che gli artisti con le loro opere (inedite) presenti alla mostra dialogano con il passato, con la nostra italica memoria. L’idea apparirà un pelino scontata, ma tra le opere esposte c’è roba buona: i buoni vecchi “si-va-sul-sicuro” Kounellis e Paladino, l’ancora piantata nel muro di Claudio Parmiggiani e soprattutto La membre fantôme, l’installazione, questa volta senza modelle, di Vanessa Beecroft.
10. Di sicuro effetto la gigantesca fenice del cinese Xu Bing esposta alle Gaggiandre: realizzata con detriti edilizi in modo da “rendere visibile il consumo – non solo di materiali, ma anche di vite umane – insito nell’ampio sviluppo urbano che ha portato alle Olimpiadi di Pechino del 2008”.
Giardini
1. Padiglione Giappone: Chiharu Shiota, the Key in the hand. Indubbiamente il padiglione che ci ha colpito di più. E colpirà anche voi se avrete la fortuna di entrare in questo spazio rosso. All’inizio penserete a un’esplosione di color vermiglio nella parte superiore della struttura, non solo sulle pareti, ma una nuvola di rosso nello spazio. Poi comincerete a distinguere i fili rossi che compongono questo nembo e discernerete migliaia e migliaia di chiavi attaccate a ogni filo ingarbugliato. Sotto la nuvola, seminascosta, una vecchia barca abbandonata, come alla deriva in questo spazio nebbioso, in cui l’artista forse vuole che ci perdiamo o che restiamo intricati tra chiavi e fili rossi.
2. Padiglione Germania: Fabrik. il messaggio parrebbe chiaro: l’accesso all’arte contemporanea non è facile, o comunque è in salita e tortuoso. Forse per questo gli artisti Olaf Nicolai e Manuel Reinartz hanno murato tutte le porte e ci fanno entrare da una porticina che conduce a una stretta scala a chiocciola fino in cima al padiglione da dove si può ridiscendere nei saloni per ammirare opere completamente diverse, ma tutte accomunate da concetti di rivolta, lavoro e migrazione.
3. Padiglione Corea del sud: The ways of folding space and flying di Moon Kyungwon e Jeon Joonho. Video e opere lanciati nel futuro in questo padiglione dal sapore fantascientifico in cui gli artisti immaginano modi per infrangere le barriere (Kant direbbe le categorie) dello spazio e del tempo che hanno sempre definito la condizione umana.
4. Padiglione Francia: Révolutions di TransHumus. Non di rivoluzioni politiche si parla qui, ma di rivoluzioni nel senso astrale del termine, ovvero movimento intorno a un altro corpo, moto di rotazione di un corpo intorno a un asse. Così lo spettatore, comodamente sistemato su una morbida schiuma shapednoise assiste in penombra al giro completo di un albero sul proprio asse, rivoluzione naturale che non si può fermare e che rimanda al lavoro dell’artista, anch’esso inesorabile e completo nel suo progredire.
5. Padiglione Gran Bretagna. Sarah Lucas ci offre un padiglione in cui la scultura si unisce alla fotografia, l’umorismo alla provocazione. Si parla di genere e di sessualità con leggerezza e ironia fra enormi sculture falliche giganti e fosforescenti e autoritratti fotografici. Il tutto intriso di atmosfera surrealista quasi a ricordarci che siamo di fronte a un opera giocosamente seria (o seriamente giocosa).
6. Padiglione Australia. Wrong way time. La politica globale, la finanza mondiale e l’ambiente; sono questi i temi attorno a cui ruota l’installazione di Fiona Hall. Immersi nell’oscurità gli oggetti più disparati esposti sono accomunati da uno stile aborigeno, quasi a ribadire un eterno conflitto tra locale e globale, un loro compenetrarsi, fino a stravolgersi l’un l’altro. Vediamo così orologi a cucu a forma di teschio tribale, maschere totemiche che inglobano oggetti comuni, scatolette di acciughe da cui scaturisce l’albero della vita. Ma più di ogni altra cosa, è forse la luce, il guizzo della vitalità artistica che fuoriesce da questo mondo dark e ci rende la speranza che un altro futuro è possibile.
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Accademia del Giglio, lingua italiana, arte e cultura a Firenze.
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