A chi ha tempo, voglia, ma soprattutto le forze di farsi un giro in città dopo aver visitato l’Arsenale e i Giardini della Biennale, consigliamo la visita di alcuni padiglioni nazionali e mostre che hanno sede in bellissimi palazzi veneziani.
Merita sicuramente passare un po’ di tempo alla Chiesa di Sant’Antonin che ospita un’installazione dell’artista cinese Ai Wewei. All’interno della chiesa, al posto delle panche, sono disposte delle grandi scatole di metallo che rappresentano la prigione in cui è stato rinchiuso l’artista. Attraverso delle aperture è possibile vedere l’interno minuziosamente ricostruito in scala: ecco quindi Ai Wewei che viene continuamente osservato dalle guardie mentre mangia, mentre dorme, mentre va in bagno, ecc. L’altra parte della mostra si trova alla Giudecca dove è possibile vedere l’intallazione-scultura Straight, formata dall’acciaio recuperato dopo il crollo della scuola in cui più di 5000 bambini morirono durante il terremoto avvenuto in Sichuan (Cina) nel 2008.
Vicino alla Chiesa di Sant’Antonin è possibile visitare il Padiglione del Kenya, che si trova dentro la caserma Cornoldi. All’interno del cortile è presente un’installazione di fiori coloratissimi che crea un piacevole contrasto con l’austerità del luogo. La mostra prosegue in tre stanze che ospitano artisti internazionali: da vedere i lavori in stile afro di Armando Tanzini e i quadri iperrealisti di Fan Bo.
Poco più in là, verso Piazza San Marco, incontriamo il padglione della Repubblica dello Zimbabwe che ospita la collettiva Dudziro: Interrogating the visions of religious beliefs, che vuole esplorare le metamorfosi delle credenze religiose del paese e il loro impatto sulla società. Lo Zimbabwe dopo la colonizzazione deve infatti ancora ritrovare una propria identità culturale, affrontando anche le problematiche religiose sorte a seguito dell’imposizione del Cristianesimo da parte dei colonizzatori. Molto interessanti i lavori di Virginia Chihota.
In uno spazio adiacente, l’Istituto S.M. della Pietà, è possibile visitare il padiglione della Nuova Zelanda in cui espone uno dei suoi artisti più importanti, Bill Culbert, noto per l’uso della luce in pittura, fotografia, scultura e altri media: se voltete tornare indietro nel tempo qui potrete ammirare una serie di installazioni al neon e materiali di riciclo.
Per il Kuwait è la prima volta alla Biennale e da degni curiosi siamo voluti andare a vedere: alcune belle foto di paesaggio e architettoniche di Tarek Al-Ghoussein si trovano vicine alle sculture di Sami Mohammad dello Sceicco Abdullah Al-Salem. Mohammad creò queste opere negli anni ’70: dopo l’invasione irachena del 1990 l’artista fu costretto a fuggire dai soldati che cercavano di catturarlo per fargli realizzare una statua di Saddam Hussein.
Uno dei padiglioni che più ci ha sorpreso è stato quello dell’Azerbaigian, dedicato all’arte decorativa del paese: sei artisti interpretano l’ornamento, che in questo Pease ha una simbologia molto forte, in diverse prospettive e utilizzando diversi mezzi. I lavori più interessanti sono sicuramente quelli di Rashad Alakbarov che attraverso complesse installazioni fatte di pezzi di acciaio e l’uso sapiente di luci, riesce a creare dei giochi di ombre sorprendenti.
La mostra Glasstress White Light/White Heat (Lou Reed docet!), che è tra gli eventi collaterali più pubblicizzati della Biennale 2013, è divisa in tre parti e coinvolge 66 artisti provenienti da tutto il mondo a cui è stato chiesto di dedicarsi al tema della luce e del calore attraverso la lavorazione del vetro. Noi abbiamo visitato l’esposizione presso l’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, bellissimo palazzo vicino all’Accademia.
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Accademia del Giglio, lingua italiana, arte e cultura a Firenze: adg.assistance@gmail.com.
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