Aleksandra Mir è nata a Lubin in Polonia nel 1967, è una cittadina statunitense, ma da qualche tempo vive a Palermo. Aleksandra è uno degli oltre novanta artisti che esporranno alla prossima Biennale d’arte di Venezia. La sua carriera artistica inizia nel 1995 e da allora lavora con i media più disparati, dalla fotografia, al video, alla scrittura, e organizza importanti performance artistiche Italia e nel mondo. Il suo denso e variegato curriculum artistico è visibile sul suo sito ufficiale insieme ai suoi lavori e libri (scaricabili liberamente). Aleksandra ha gentilmente accettato di rispondere ad alcune nostre domande sul suo lavoro e sulla prossima mostra veneziana. Cogliamo anche l’occasione per ringraziare Edwige Cochois, l’assistente di Aleksandra Mir, per il suo indispensabile aiuto.
La versione inglese di questa intervista si trova qui.
D. La prima domanda è, ovviamente, che cosa farai alla Biennale?
R. Ho stampato un milione di finte cartoline postali di Venezia; il titolo è “VENEZIA (all places contain all others)“. Le cartoline rappresentano una serie di “vie d’acqua” da tutto il mondo: fiumi nordici ghiacciati, sorgenti nel deserto del Sahara, spiagge a Miami, skylines delle sponde di Sydney e Manhattan, laghi della Foresta Nera, fontane di Parigi.
Le cartoline sono a disposizione del pubblico della Biennale. Si possono portare a casa o scriverle sul posto e spedirle ai propri contatti nel mondo imbucandole nelle due cassette postali, che saranno quotidianamente svuotate da un vero postino, messe a disposizione da Poste Italiane.
Mi interessava: la demografia. L’effimero. La distribuzione. L’economia turistica. La verità. L’autenticità. La rappresentazione. L’acqua come simbolo di globalizzazione. L’acqua come elemento costitutivo dei nostri corpi. L’acqua come linea di demarcazione delle frontiere. L’acqua portatrice e distributrice di inquinamento. L’acqua come lingua. Venezia propagata negli oceani, fiumi, laghi e stagni del mondo. Venezia in ogni molecola di pioggia.
D. In un’intervista con Brian Sherwin hai detto che la tua mostra più importante è stata quella di Copenhagen nel 1996 per il suo dinamismo e libertà di espressione concessa agli artisti. Cosa pensi che succederà alla Biennale di Venezia, cosa porterà per te e per il tuo lavoro esporre nel luogo per eccellenza dell’arte contemporanea? Pensi che questa (sovra)esposizione possa influenzare la creatività di un artista?
R. Non credo che l’esposizione di per sé sia un pericolo. L’artista, qui, non è così rilevante e l’individualità di ognuno può essere facilmente gestita. Io per esempio ho fortemente limitato le public relations attorno a me e rilascio pochissime interviste come questa, soprattutto per il poco tempo che ho e perché è facile diventare ripetitivi e noiosi. Queste sono semplici misure amministrative che ognuno può controllare.
Ciò che conta è il fare. Quello che conta è vedere se il lavoro e l’apparato produttivo messo in moto per la mostra può reggere la pressione oppure no. La gestione e la logistica che stanno dietro alla stampa, spedizione e distribuzione di un milione di cartoline che pesano 13 tonnellate e che arriveranno a Venezia su tre camion, è un’impresa enorme per chiunque sia coinvolto nell’organizzazione. Sono grata agli organizzatori della mostra per aver accettato il mio lavoro. E sì, questa Biennale ha l’aria di essere divertente, rischiosa e sperimentale come lo è stata la mia prima mostra a Copenhagen. Se devo essere del tutto onesta, non ho idea di cosa succederà.
D. Ci puoi dire un nome di un artista classico che ti ha accompagnato durante la tua educazione artistica?
R. “Classico” per me è l’umile e allo stesso tempo fieramente politica America degli anni ’60 e ’70: Fluxus, Allan Kaprow, Eleanor Antin, Vito Acconci, Hannah Wilke, Ray Johnson, e gli altri. Questi sono stati i primi artisti che ho incontrato alla mia scuola d’arte di New York nei primi anni ’90.
D. E per quanto riguarda un artista contemporaneo?
R. Sia che mi relazioni ad un’opera individuale o meno, i miei contemporanei sono i miei maestri più influenti. Nonostante l’abbondanza di ego che ci circonda, credo che ogni generazione sia coinvolta in un progetto collettivo per rappresentare il proprio tempo. Sono molto orgogliosa di quello che faccio.
D. Picasso ha detto: “La pittura è uno strumento di guerra offensivo e difensivo contro il nemico”. Chi pensi che sia il nemico oggi? Se c’è, ovviamente…
R. Non saprei. Forse il mio nemico è la mia autocompiacenza e ignoranza, la mia tendenza ad essere pigra e ad accettare il sapere senza ulteriori approfondimenti o curiosità. Qualsiasi rabbia è perciò meglio che venga diretta verso l’interno, per mettere in moto il macchinario e far veramente accadere le cose e cambiarle. Tutto il resto potrebbe sembrare frustazione fuorviante verso l’esterno e nei riguardi di un nemico invisibile: il primo segno della pazzia.
D. Parliamo del tuo lavoro. Ho trovato molto interessante il lavoro ‘Living & Loving’, le biografie di “persone normali” scritte da te e da Polly Staple: da cosa sono nate?
R. See: http://www.aleksandramir.info/texts/pacemaker.html
D. ‘Marzarama‘, 2008, è una performance, realizzata insieme a Lisa Anne Auerbach, nella quale avete riparato con il marzapane i nasi rotti, le dita e le mani di antiche sculture presenti alla Gipsoteca dell’Accademia di Belle Arti di Napoli. Era un omaggio o una provocazione?
R. Entrambi, forse. E’ stato un progetto molto difficile da realizzare. Alla fine abbiamo deciso di sfruttare la scappatoia dell’ambiguità grazie anche al meraviglioso Professor Augusto Giuffredi, esperto restauratore che dirige la Gipsoteca, a cui è piaciuta l’idea e ci ha lasciato libere nella sua appena restaurata galleria di gessi dal valore inestimabile.
D. Sei stata la curatrice di Donna/Woman una mostra del Laboratorio Saccardi di Palermo; hai lavorato con 16 assistenti per realizzare ‘The Church of Sharpie’ e infine spesso collabori con Polly Staple e con Lisa Anne Auerbach: mi sembra che che la collaborazione sia fondamentale per te.
R. Sì, la gente mi piace.
Q. Credi che il femminismo sia ancora attuale? Il tuo lavoro ‘The first Woman on the Moon’, 1999, può essere considerato femminista? Che ruolo riveste la politica nei tuoi lavori?
R. Certamente. Forse. Molto.
Tuttavia quel lavoro è un’opera aperta. Ho ricevuto sia telegrammi di complimenti dal dipartimento di studi di genere in Australia, sia lettere di odio dalle femministe americane che si sono opposte alla confluenza di temi di genere con l’imperialismo (l’uso della bandiera americana in Olanda). Ho anche ricevuto sdegnate proteste dall’Associazione degli Astronauti Autonomi che contestano il monopolio della NASA nei viaggi spaziali, dicendo che il mio lavoro mostrava solamente l’impotenza delle persone normali a partecipare a un viaggio spaziale, mentre io non intendevo realmente “andare da qualche parte”, ma giocare sulla spiaggia. Ricevo un sacco di differenti letture di quel lavoro e questo è il mio scopo, tenere la palla in gioco. Se il lavoro può essere utile in qualsiasi modo e puoi lanciare la palla più in là, questo è importante.
D. Sono ormai tre anni che vivi in Italia: puoi dirci qualcosa che ti piace e qualcosa che non ti piace di questo paese?
R. No, veramente, perché non mi sembra di vivere in Italia. Mi sono trasferita a Palermo per le sue qualità specifiche e al momento sono una del posto, ma solo qui. Ho una vita normale, ho a che fare con le relazioni personali, il traffico, il tempo, la tv e la burocrazia, con il buono e il poco buono, come tutti, in qualsiasi posto.
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